Supervisione Fenomenologica – Alla scoperta del terapeuta interno.
Aut: Dott.ssa Elena Danesi.
Questa supervisione, nella scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt fenomenologico esistenziale dell’Istituto Gestalt Romagna, si svolge nel seguente modo: l’allievo in formazione
porta un suo cliente e si mette nei suoi panni, scegliendo un altro allievo che gli fa da terapeuta, e il supervisore interrompe la seduta per dare indicazioni che possano aiutare il terapeuta a
scoprire altri punti di vista sulla seduta. In questo caso la cliente è una cinquantenne, separata, con due figli, affetta da patologia respiratoria ingravescente. Da un anno a questa parte non
esce di casa quasi mai, non frequenta amicizie né uomini. Non lavora.
T = terapeuta C = cliente S = supervisore
T.: Come stai? C.: Sono rilassata, vengo da una settimana in cui sono stata proprio bene, non sono uscita per niente, ma sono stata bene. Non mi fregava niente di niente. Sono uscita solo per
venire qui. E mi pare strano che quando vengo qui mi stupisce che mi trucco, mi curo. Sono stupita. Gli altri giorni non ho voglia di vestirmi bene. Sono inguardabile. T.: Da quanto
tempo va avanti così? C.: Da un anno, da quando è morto un mio amico che frequentavo e che mi stava molto vicino, si prendeva cura di me. Passavamo dei fine settimana assieme, stavamo bene.
Era solo un amico per me. Io gliel’ho sempre detto chiaramente, che non volevo niente di più di un amico. Lui un po’ lo capiva e un po’ no, varie volte mi ha chiesto di sposarci, ma ho sempre
detto di no. Dopo due matrimoni finiti per un tradimento, io non ne voglio sapere. Solo che lui insisteva per sposarci...L’ennesima volta che gli ho detto l’ennesimo no, andandomene via, lui
cos’ha fatto? Si è ucciso…Ho paura ora che se ricomincio una storia con un uomo, possa succedere qualcosa di brutto… che si ripeta di nuovo una storia simile. T.: Scusa, allora tu hai smesso di
uscire da questo evento? C.: Sì, un po’ la mia malattia, un po’ questo fatto…. Lo so che faccio schifo! Mi faccio proprio schifo per come mi sono ridotta. T.: Cosa ti fa schifo? C.: Il fatto che
non reagisco, che non riesco a ripartire, non mi scatta la voglia di fare come ho sempre fatto. T.: Vorresti un uomo, una relazione d’amore? C.: Si lo vorrei… per … T.: Quindi, il tuo
problema adesso qual è? C.: Il problema è che non ce la faccio, st a casa, esco solo per venire qui, nonostante le cose che tu mi dici, non mi rimane niente. Esco di qui e non torna
niente in mente. Sono qui e non riesco a smuovermi. T.: C’è una parte di te che vuole uscire, che vuole una relazione e una parte che non ce la pu fare, possiamo dire così? Ti torna?
C.: Questo lo sapevo già, quando sono venuta. T.: Quindi, in cosa ti posso essere utile?
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C.: Vengo qui per parlare con qualcuno. T.: Abbiamo visto che parlare con qualcuno, che sono io poi, non cambia molto le cose. S. interrompe la seduta: Che effetto ti fa quello che ti ha detto?
T: Sento un po’ di rabbia, un po’ di risentimento. S.: E’ una svalutazione, a mio avviso, quella che ti ha fatto! T.: Comincio subito a pensare “non ho fatto abbastanza finora”. S.: Si chiama
“senso di colpa”? T.: Eh già… mi frega sempre… mi sento in colpa perché mi stà dicendo che non le sono d’aiuto, da quando viene quì non è cambiato niente. Per sottolineando che quel
qualcuno sarei io, mi è sembrato di appoggiarmi alla rabbia e al risentimento e tenere a bada il senso di colpa. S.: Quello che hai detto ha sistemato il tuo risentimento e la tua rabbia? Provare
rabbia, durante un colloquio terapeutico, nei confronti del proprio cliente, impedisce al terapeuta di continuare a stare in contatto con lui e con ci che sente, perché la rabbia è come una
energia che ci si porta dentro, pervade tutto, e da quel momento in cui è emersa conviene esprimerla in qualche modo, “rimetterla in circolo” all’interno della seduta, per poter poi proseguire in
contatto col cliente. T.: Sì, direi di sì. S.: Il tuo risentimento per caso era poco poco? Perché per quello che le hai rimandato, le hai fatto una carezza, dal mio punto di
vista. Metaforicamente è come se lei ti avesse tirato un pugno e tu le avessi fatto una carezza. Per quello che è arrivato a me, la risposta non era commisurata. Quindi ti chiedo: era così poca
la tua rabbia? T.: E’ come se tutte le volte che sento rabbia, mi bastasse poco per sistemarla. S.: Temo che una parte di rabbia la tiri fuori, una parte la metti in dispensa e te la tieni.
T: E’ così, perché mi dico che in dispensa c’è posto e mi metto a posto. S.: A lungo andare ti riempi troppo la dispensa e temo che questo non sia un bene per te. Immaginiamo di fare
un fermo immagine, fermiamo qui la seduta, e facciamo un lavoro fra te e te. All’interno della seduta il terapeuta è costretto continuamente a fare questo tipo di lavoro su sé stesso, ogni
volta che gli emerge in figura una gestalt inconclusa deve cercare di chiuderla, ma in un lasso di tempo minimo, giusto il tempo di riuscire ad ascoltare appieno il cliente, tornare in contatto
con lui una volta sistemata la “questione tra sé e sé”, e se l’inciampo rimane e la gestalt non si riesce a chiuderla al momento, questo pu essere motivo di supervisione in seguito. S
aggiunge una sedia e propone al T di fare una sedia calda ripartendo dalle parole del C “Questo lo sapevo già, quando sono venuta” e “Vengo qui per parlare con qualcuno”. T.: Metto in una sedia
la parte di me che si arrabbia (1), e nell’altra la parte di me che la placa (2). 1 (verso 2): Mi sento un po’ arrabbiata, perché mi sono sentita svalutata, sì sono arrabbiata! Cambia
sedia. 2 (verso 1): Per cosa ti vuoi arrabbiare? Stai facendo una seduta con lei? Se hai un po’ di rabbia, ricordale dove si trova e chiedile cosa vuole da te. Non ci si arrabbia con le persone
che vengono in seduta da te! S.: Quindi la parte che placa è la terapeuta a “modino”, “perfettina”? Su questa sedia (2) c’è la terapeuta perfetta? T. ricambia velocemente sedia. 1
(verso 2): Mi fai arrabbiare più della cliente! S. (parlando a 1 di 2): Lei ti piace? Glieli daresti 60 euro alla fine? 1 (verso S). Adesso sono arrabbiata anche con te. Glielo dovevo dire
io che faceva schifo, non te. S.: Ma io non ho mica detto che fa schifo, ti ho chiesto se le daresti 60 euro. Stai proiettando qualcosa su di me? 1: Sto proiettando che del giudizio su di lei…
che non è capace mi è sembrato che glielo stessi dicendo te! S.: Quindi qui c’è un terzo terapeuta che sta dicendo cosa?
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S aggiunge un’altra sedia…T. ci pensa un po’ poi ci si siede (3). 3.: (Rivolgendovi alle altre due sedie vuote) Siete due teste di cavolo tutte e due! Te (1) ti arrabbi e dici dici ma non sei
capace nemmeno di rispondere, te (2) dici non ti arrabbiare, tanto ci penso io, e poi non fai nulla. Siete due sceme…
S.: Quindi cosa vuoi da loro? Da te (rivolta a 1) vorrei che tu dicessi chiaramente alla cliente che ti fa arrabbiare il fatto che considera te come qualsiasi altro individuo del mondo… Tu
(rivolta al 2)… Tu stai zittina, lascia fare, è una vita che hai sempre da dire su tutto! Stai zittina! Cosa ti posso far fare a te? S.: Ti serve a qualcosa lei (la 2)? T.: Sì,
mi serve, mi da i confini, i riferimenti, mi da anche forza. Lei mi rassicura, quando vuole. S.: Dillo a lei. T.: Tu (2) smettila di criticare e rassicurami., lasciami fare, che anche se mi
arrabbio va tutto bene. S.: Ora sei pronta per riunire le tre parti in seduta? Qui un ulteriore passaggio di conferma avrebbe potuto essere chiedere a T. di tornare prima sulla sedia 1 poi sulla
sedia 2 assicurandosi che entrambe le volte i personaggi fossero disposti a fare quella che 3 aveva chiesto loro. Questo passaggio è stato tralascianto in quanto T. pareva avere già
interiorizzato la cosa, in quanto la sua energia si era placata, il suo viso disteso, e il passaggio ulteriore pareva superfluo, già avvenuto dentro di sé. Cosa confermata dai passaggi
successivi. T.: Proviamo! (ritorna sulla prima sedia, e S. toglie le altre due) S.: Ripartiamo dal momento in cui lei ti dice “sono qui per parlare con qualcuno”. T.: Peccato che qui siamo in uno
studio di psicoterapia, non si viene per fare “le chiacchere”, come potresti fare con chiunque, se uscissi di casa. C.: Ma in questo periodo non vedo nessuno. T.: Allora possiamo utilizzare
questo tempo per esempio per vedere come fare a trovare qualsiasi altra persona nel mondo con cui fare due chiacchere. Se ti interessa la proposta, vediamo com’è che non riesci ad uscire di casa,
altrimenti lavoriamo su qualcos’altro, dimmi tu! C.: Sì, aiutami ad uscire di casa. Quando il cliente non rispetta il terapeuta e/o la terapia, il terapeuta si sente svalutato, e questo provoca
in lui frustrazione, emotivamente parlando in genere si sente rabbia, la quale pu essere nascosta dietro al senso di colpa, alla paura di non fare il bene del cliente, di “stare
sbagliando”, di non essere in grado di aiutarlo. La rabbia stessa genera paura della rabbia, della propria reazione, per esempio. Poi si attivano in noi, spesso, tutti gli introietti riguardanti
il fatto che “non ci si deve arrabbiare”, “un bravo terapeuta sopporta tutto”, “non ci si arrabbia col cliente”. Il problema che spesso non si prende in considerazione è che la rabbia, se non
espressa, si accumula, e da tante piccole mancanze di rispetto alle quali non si è reagito in qualche modo si può arrivare a rompere dentro di sé il rapporto col cliente, che da un certo
punto in poi non è più amato bensì tollerato. A quel punto ci si accorge che quando si avvicina l’appuntamento con lui si è svogliati, addirittura scocciati di vederlo, e la relazione non è più
sana, la terapia diviene lentamente un ascoltare parole senza stare in contatto con l’essere umano davanti a noi, che non ci piace più. Credo che una relazione sana parta dal presupposto che
qualcosa della persona che aiutiamo ad aiutarsi, se non tutto, ci debba piacere. Non si pu aiutare una persona disprezzata, e tanta rabbia accumulata può portare al disprezzo, dal
quale non passa l’amore. Non è quello che avviene in tante coppie sposate da tanto, in cui tante cose che hanno dato fastidio, nel tempo, non sono state dette, fino ad arrivare alla rottura netta
e insanabile? La rabbia, che a molti di noi è stato insegnato di trattenere, addirittura di “non provare” (come se fosse possibile decidere di non sentire ci che si sente), in realtà è
un’energia potente, che deve venire convogliata all’interno di un rapporto, dandogli così, al rapporto, l’occasione di continuare, di rinsaldarsi, oppure di finire, ma dicendoselo subito
chiaramente. In questa seduta il terapeuta, accorgendosi tramite l’aiuto del Supervisore che stava provando rabbia, ha fatto da terapeuta a sé stesso, cioè si è aiutato ad aiutarsi, prendendo
consapevolezza di una parte di sé arrabbiata e di un’altra che impediva di esprimere questa emozione, e nel suo intervento terapeutico ha integrato le parti in conflitto. Questo lavoro aiuta a
sviluppare il “terapeuta interno”, quello che si interiorizza come un’istanza che va sviluppata nella formazione e nella pratica clinica. Il terapeuta interno interviene come supervisore durante
la seduta, per arrivare a fare un intervento che sia razionale, emotivo e terapeutico al tempo stesso. A quel punto il Terapeuta è riuscito col suo intervento ad esprimere la sua rabbia, ponendo
al Cliente la scelta dell’argomento su cui lavorare, e quindi la presa di responsabilità sulla propria terapia, puntualizzando che in terapia non si viene a far chiacchiere, ma a
lavorare!